“Non puoi fare così! Non lo vedi che sei grande e che in questo modo fai male al fratellino?”
“Tu sei piccolo, per questo tua sorella può uscire la sera e tu no!”
“Non preoccuparti, gli altri bimbi sono grandi e perciò sono più veloci di te!”
“Sei grande ormai, dovresti aver imparato a rispettare le regole”
“Solo i bambini piccoli piangono”
“I bambini grandi non hanno paura”
“Solo i bambini piccoli tengono il pollice in bocca”
“I bambini grandi non portano a scuola i propri giochi”
Insomma, se fossi una bambina o un bambino, non ci capirei più niente! Una volta sono piccolo, poco dopo sono grande, qui non posso e là devo, qui è possibile e là è negato.
Nella nostra fretta di dare indicazioni, in quanto adulti, spesso diciamo cose per le quali non ci rendiamo conto delle conseguenze, a maggior ragione se il ragionamento venisse portato fino in fondo. Il fatto è, infatti, che piccolo e grande hanno a che fare con le misure, non hanno però a che fare con dimensioni fisse, bensì con dimensioni variabili a seconda del punto di riferimento preso a criterio.
Quindi, quando diciamo a un bambino o a una bambina che è piccolo o che è grande, lo invitiamo inevitabilmente a confrontarsi, a misurare la propria grandezza in relazione alla grandezza di altri, a individuare connessioni che poi vorremmo non ci fossero: “Pensa con la tua testa”, “Quel che fa tua sorella non ti deve interessare”, “Ognuno è fatto a modo suo”, “Non devi paragonarti agli altri”.
Inneschiamo una sorta di gareggiamento di cui poi paghiamo le conseguenze, in altri momenti: “A lui hai dato di più!”, “Favorisci sempre lei”, “Il suo gelato/pizza/pallone è più grande del mio”. Ci incartiamo con le nostre stesse mani, ponendo inconsapevolmente i presupposti per questa continua ricerca di raffronti e misurazioni.
Oltre al fatto, non secondario, che ovviamente lo stesso bambino/la stessa bambina, può essere sia piccolo sia grande in momenti diversi della stessa giornata, finendo per non capirci più niente: sono dunque piccolo o grande? E non è che sono piccolo o, viceversa, grande quando “fa comodo” agli adulti?
Siamo poi certi che adoperare l’essere piccoli o grandi per segnalare la perdita di possibilità o l’acquisizione di responsabilità non finisca per creare il pensiero nei bambini e nelle bambine che sia “Meglio tornare piccoli” in alcuni casi o “Meglio crescere in fretta” in altri? Con il risultato di incitarli indirettamente a una sorta di regressione se prospettiamo l’essere piccoli una volta come la vantaggiosa possibilità di succhiarsi il dito, portarsi i giochi a scuola, permettersi di avere paura, godere della sicurezza del pannolone, essere imboccati o vestiti, e così via e l’altra come la minaccia della perdita di queste possibilità per divenire grandi.
O, viceversa, siamo certi che prospettare lo sviluppo indicando che si deve capire di più, rinunciare di più, emozionarsi di meno, ecc. sia un equilibrato scambio rispetto al poter uscire a tarda sera o correre più velocemente o rispettare le regole?
Insomma non sembrano atteggiamenti molto produttivi. Se ne esce evitando questo tipo di commenti, così come il chiosare i comportamenti dei bambini con il fatidico “Brava! Bravo!”. In alternativa, si può interagire in modo più descrittivo e nutriente per lo sviluppo dell’identità.
Ricordate le otto esclamazioni introduttive? Bene, ecco il modo corretto per esprimere gli stessi concetti:
“Mi sono accorta che hai una bella forza, fai attenzione quando giochi con il fratellino e dosa la tua energia, potresti fargli male”
“Quando anche tu avrai 16 anni potrai uscire la sera, come tua sorella”
“Vedi, il corpo cresce con l’età. Presto sarai veloce anche tu”
“Non è facile rispettare le regole, ma via via che si cresce se ne capisce meglio la necessità”
“Tutti noi piangiamo, quando ci sentiamo tristi o abbattuti”
“Tutti noi abbiamo paura, a volte abbiamo paura di cose diverse in momenti diversi della nostra vita”
“Tenere il pollice in bocca a volte è rassicurante. Verrà il momento in cui sentirai di non averne più bisogno”
“Fa piacere portare a scuola i propri giochi, ci sembra confortante. Potresti lasciarlo nella cartella”
E così via. Il fatto è che “dire è fare”, e dire ai bambini e alle bambine, in particolar modo, è porre le basi per la costruzione della loro identità. Se solo ne fossimo coscienti fino in fondo, misureremmo molto di più e molto meglio le parole che offriamo loro.
Una favola utile a spiegare ai bambini le dimensioni: I tre orsi di Lev Tolstoj
Una bambina uscì di casa per andare nel bosco. Nel bosco si smarrì, e cominciò a cercare la strada per tornare a casa, ma non la trovò, e giunse invece a una casetta nel bosco.
La porta era aperta: lei guardò nella porta, vide che nella casa non c’era nessuno ed entrò. In quella casetta vivevano tre orsi. Un orso era il padre, si chiamava Michaìl Ivànyc. Era grande e peloso. Un altro era un’orsa. Era più piccola dell’orso, e si chiamava Nastas’ja Petrovna. Il terzo era un orsacchiotto piccino e si chiamava Misutka. Gli orsi non erano in casa, erano andati a spasso nel bosco.
Nella casetta c’erano due stanze: una era la sala da pranzo, e l’altra era la camera da letto. La bambina entrò nella sala da pranzo e vide sul tavolo tre scodelle con dentro la zuppa. La prima scodella, molto grande, era di Michaìl Ivànovic. La seconda scodella, più piccola, era di Nastas’ja Petrovna; la terza scodellina, blu, era di Misutka. Vicino a ciascuna scodella c’era un cucchiaio: uno era grande, l’altro era medio, e il terzo era piccolino.
La bambina prese il cucchiaio più grosso e mangiò una cucchiaiata dalla scodella più grossa di tutte; poi prese il cucchiaio medio e mangiò una cucchiaiata dalla scodella media, poi prese il cucchiaino piccolo e mangiò una cucchiaiata dalla scodellina blu; e la zuppa di Misutka le parve la migliore di tutte.
La bambina volle sedersi un po’, e vide che al tavolo c’erano tre seggiole: una grande, di Michaìl Ivànyc, l’altra più piccola, di Nastas’ja Petrovna, e la terza piccolina, con un cuscinino blu di Misutka. La bambina provò ad arrampicarsi sulla seggiola grande e cadde; poi sedette sulla seggiola media, e ci stava scomoda, poi sedette sulla seggiolina e si mise a ridere, tanto ci stava bene. Mangiò tutta la zuppa e cominciò a dondolarsi sulla seggiola.
La seggiolina si ruppe e lei cadde giù per terra. Si alzò, rialzò la seggiolina, e andò nell’altra stanza. Là c’erano tre letti: uno grande di Michaìl Ivànyc, un altro medio – di Nastas’ja Petrovna, e il terzo piccolino – di Mìsen’ka. La bambina si coricò sul grande, ma stava troppo larga; si coricò su quello medio – ma era troppo alto; si coricò su quello piccolino – e il lettino le andava proprio su misura, e ci si addormentò.
Intanto gli orsi arrivarono a casa, affamati, e vollero pranzare. L’orso grande prese la sua scodella, ci dette un’occhiata e ruggì con voce tremenda:
CHI HA MESSO IL CUCCHIAIO NELLA MIA SCODELLA!
Nastas’ja Petrovna guardò nella propria scodella e rugghiò ma meno forte:
CHI HA MESSO IL CUCCHIAIO NELLA MIA SCODELLA!
E Misutka vide la sua scodellina vuota e pigolò con un vocino sottile:
CHI HA MESSO IL CUCCHIAIO NELLA MIA SCODELLA E S’E’ MANGIATO TUTTO!
Michajlo Ivànyc guardò la propria seggiola e rugghiò con voce tremenda:
CHI S’È SEDUTO SULLA MIA SEGGIOLA E L’HA SPOSTATA DI DOV’ERA!
Nastas’ja Petrovna guardò la propria sedia e rugghiò, meno forte:
CHI S’È SEDUTO SULLA MIA SEGGIOLA E L’HA SPOSTATA DI DOV’ERA!
Misutka guardò la propria seggiolina rotta e pigolò:
CHI S’È SEDUTO SULLA MIA SEGGIOLA E L’HA ROTTA!
Gli orsi arrivarono nell’altra stanza.
CHI S’È DISTESO SUL MIO LETTO E ME L’HA GUALCITO!
ruggì Michajlo Ivànyc con voce tremenda.
CHI S’È DISTESO SUL MIO LETTO E ME L’HA GUALCITO!
rugghiò Nastas’ja Petrovna meno forte.
E Mìsen’ka prese uno sgabello, salì sul suo lettino e cominciò a pigolare con un vocino sottile:
CHI S’È DISTESO SUL MIO LETTO!
E a un tratto vide la bambina e si mise a strillare come se lo stessero scannando:
ECCOLA QUA! PRENDILA, PRENDILA! ECCOLA, ECCOLA! AJ-JA-JAJ! PRENDILA!
E volle morderla. La bambina aprì gli occhi, vide gli orsi e si gettò verso la finestra. La finestra era aperta, lei balzò giù dalla finestra e corse via. E gli orsi non riuscirono a raggiungerla.
di Paola Nicolini
Docente di Psicologia dello sviluppo e Psicologia dell’educazione
Università di Macerata
paola.nicolini@unimc.it